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Valentina Petrillo: «Lo sport mi ha permesso di essere me stessa»

L’italiana, ipovedente, è la prima atleta transgender paralimpica. «Porto con me al traguardo la situazione delle persone nella mia condizione. Nello sport normale l'inclusione non c'è mai stata»

valentina petrillo atleta transgender | foto Massimo Bertolini/Fispes

Valentina Petrillo, atleta affiliata alla Uisp, ha scoperto lo sport a 7 anni guardando in televisione la vittoria del velocista Pietro Mennea alle Olimpiadi di Mosca. Ipovedente dall’età di 14 anni, è stata la prima atleta transgender a gareggiare nelle competizioni femminili paralimpiche a Parigi. «Lo sport mi ha permesso di essere me stessa» racconta Valentina, che è anche protagonista del docufilm “5 nanomoli – Il sogno olimpico di una donna trans”, prodotto da Etnhos e da Gruppo Trans, con il sostegno dell’Uisp e di Arcigay. Il docufilm sta girando le sale italiane ed è scaricabile da Vimeo. (foto di Massimo Bertolini/Fispes)

«Il percorso per diventare un’atleta donna trans è stato complicato – racconta Valentina, che è nata uomo senza sentirsi tale, tanto da decidere di cambiare genere –. Dopo la transizione è cambiato il modo di fare sport: è stata una scoperta continua e giornaliera. Constatavo che non potevo più fare allenamenti “da maschio”: avevo bisogno di tempi di recupero nuovo e di una nuova dieta. Nel 2018 ho detto basta: gareggiare con gli uomini era diventata una violenza e ho iniziato la terapia ormonale. Nel 2020 ho gareggiato per la prima volta con le donne e ho continuato fino a partecipare alle paralimpiadi di Parigi, dove mi sono classificata sesta nei 400 metri e nona nei 200».

In quanto “ex uomo”, non subisce l’accusa di essere più forte delle avversarie?
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«L’uomo più forte di tutto e tutte è un mito distorto. Non è dimostrato che io, nata uomo, debba avere un vantaggio rispetto alle donne. Non è vero che tutti gli uomini sono più forti di tutte le donne. Il gap prestazionale tra uomo e donne è in continuo assottigliamento ed in parte dovuto anche alle diverse opportunità che l’uomo ha rispetto alla donna; pensiamo, ad esempio, al professionismo femminile nel calcio previsto da soli due anni e solo nella serie A. Un giorno, spero presto, vedremo donne che battono uomini, magari negli sport su lunga distanza, dove le performance delle donne sono talvolta migliori di quelle degli uomini. Lo sport, con il binarismo di genere che lo caratterizza, non rappresenta la società in evoluzione. Oggi lo sport deve considerare altri tipi di parametri e tener presene il principio dell’inclusione. E poi, senza le persone transgender, si perderebbe il valore della diversità: ognuno di noi è differente a suo modo e ha una propria unicità».

È mai stata oggetto di violenza?

«Di violenza verbale sì. Nello sport, inoltre, mi fu vietato l’accesso ai bagni femminili. Ma bisogna fare distinzione tra il mondo paralimpico e quello senza disabilità. In quest’ultimo l’inclusione non si è mai attuata, ci sono sempre stati ostacoli».

Cosa porta al traguardo, oltre se stessa naturalmente?

«Voglio portare la situazione delle persone transgender che sono bistrattate e vivono una situazione di disagio. Ho fatto tanti passi avanti, ma oggi non mi sento ancora riconosciuta come professionista. Vorrei che di me si parlasse solo in relazione ai meriti sportivi e non per altro. Ma non perdo la speranza, anzi: credo si possa cambiare la società anche attraverso lo sport e corro anche per questo».

SPECIALE UISP – Tutti gli articoli di VareseNews

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Pubblicato il 20 Novembre 2024
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