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Storie di calcio: il “torello” di Borsano

Una storia estiva di Ferdinando De Maria che racconta un calcio che non c'è più, fatto di persone, gioia, amore per il pallone che rotola e personaggi caratteristici

Bambini calcio

Una storia estiva di Ferdinando De Maria che racconta un calcio che non c’è più, fatto di persone, gioia, amore per il pallone che rotola e personaggi caratteristici

Nel calcio il “torello” è una forma di riscaldamento piacevole. Viene prima della corsa lenta, gli allunghi e lo stretching. Consiste in un cerchio di giocatori impegnati a non far toccare la palla ad uno o più compagni nel centro (chi sbaglia va’ dentro). Il tocco è “unico”, per questo bisogna essere rapidi.

I bambini, non sanno cos’è il “torello”. Ad essi basta giocare dove capita: in camera, all’asilo, in cortile, all’oratori e, se possibile, dal dentista. Oggi, ai campionati di calcio si avvicinano anche le donne. Le migliori fanno parte di squadre femminili che militano in serie ‘A’: Milan, Inter, Juventus, Roma, Torino e Fiorentina. Non hanno ancora il seguito degli uomini, ma ci provano. Come ci provano quelle ragazzine che una volta giocavano con le bambole e oggi le vedi all’oratorio feriale “randellare” i maschietti con una disinvoltura preoccupante. E’ uno specchio dei tempi, dove la parità nei diritti ha varcato i confini dello sport. Lo abbiamo visto anche alle ultime Olimpiadi dove, nel pugilato, un “oro” femminile avrebbe potuto tranquillamente gareggiare con gli uomini. Questi ultimi, solo guardandola in faccia, avranno pensato: << Se “quella” si sposa e da un pugno al
marito, lo arrestano per vagabondaggio…>>.

Da giovane, giocai tre anni nella Borsanese. Avevo 21 anni ed avevo finito da poco il servizio militare. Cercavo una squadra e scelsi l’unica che mi cercò. Non sapevo dove fosse Borsano, ma andai volentieri per la gentilezza con cui mi contattò un dirigente.

Quell’uomo, Emilio Fiora, era il vicepresidente della Borsanese. Una carica che integrava a quella di autista, dirigente accompagnatore, segretario e, immagino, cassiere. Fiora era una persona straordinaria: ricordava i “bidelli” di un tempo, quelli
che a scuola fanno di tutto: pulizia, infermeria, gesso, inchiostro, compagnia ai disturbatori fuori dalla classe, campanella ed apertura dei cancelli.

Era l’estate del ‘68’ quando andai alla Borsanese. Non avevo l’auto e Fiora veniva a prendermi alla stazione di Busto con la sua “124” azzurra. Azzurra come i colori di una squadra dove mancavano molte cose, tranne l’affetto della gente. Tre stagioni alla Borsanese: due in Seconda ed uno in Prima Categoria. I compagni si chiamavano: Stefanazzi, Rottoli, Branca, Girola, Quaranta; Pozzati, Pellegatta, “Chicco” Candiani, Moneta, Alberti, Merlo, Barbieri, De Mergazzi, Mattaini e Gornati (chiedo scusa per i nomi che non ricordo). Fra i giovani c’era Carlo De Bernardi il quale, dopo una breve parentesi a Gallarate, fece carriera a Piacenza, Ascoli e Udine.

Perdevamo, vincevamo… accettavamo il risultato come una festa. Non esistevano “premi partita”: solo un buono da 100 lire per un’aranciata al bar che fungeva da sede. Il girone della Borsanese abbracciava la provincia di Milano. Qui trovavi Corbetta,
Pejo Lorenteggio, Bareggio, Garbagnate, Magenta, Settimo, Indomita Legnano e Canegrate. I “derby” erano con Ardor, Sacconago ed Arconate.

Cosa rimane oggi nel cuore di chi difese i colori della Borsanese? Rimane l’affetto dei tifosi. Rimane il saluto “smorzato” quando perdevi e l’applauso che portavi a casa quando vincevi. Ed io? A me?… Mi hanno voluto bene: solo questo ricordo. Farolli, il presidente, mi chiamava “torello” perché, pur giocando da centravanti ero una “trottola”: pressavo tutti quelli che avevano la palla. Aggredivo lo stopper, il libero, i terzini e i portieri “perditempo”. “Giravo” a vuoto e non davo pace: mi piaceva vincere e perdere lottando. In fondo, questo chiedeva la gente. Sapevano che la partita era come la vita: andava combattuta con lealtà fino al termine.

Sono stato tre anni a Borsano. Chiedo scusa se lo ripeto. Lasciai gli “azzurri” alla fine del campionato 70/71, dopo un incidente causato dalla nebbia in una serata d’inverno a Legnano. Mi “rivendettero” al prezzo di acquisto: 175 mila lire. L’unica
cosa che guadagnarono fu la mia malinconia. Ciò che oggi rimane della Borsanese è l’immagine di una tribuna che applaude il ricordo di un mondo migliore di questo. “Ragazzi” divenuti uomini; invecchiati in una società che pensava di aver scordato la
guerra.

Ciao, Borsanese! Da un Ferragosto lontano ti saluta il “ Dema”: quel centravanti che inseguiva la palla sul prato di via Cardinal Ferrari. Correva e girava a vuoto cercando di regalarti la gioia di un di un gol. Senza sapere che essa era lì, nel sorriso di compagni, magazzinieri, dirigenti e tifosi. Foglie appassite di una stagione “immortale” chiamata: giovinezza.

Fernando De Maria

Redazione
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Pubblicato il 14 Agosto 2024
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