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GRANDE GUERRA, BASTA CON LA RETORICA

6 Novembre 2013

Buongiorno, ho letto con interesse la lettera inviata dal giovane segretario del PD in merito alle celebrazioni del 4 novembre (qui il testo). Da praticante di storia ne ho ricavato una conferma, e cioè che a distanza di una generazione non è cambiato molto: l'immaginario della Prima Guerra Mondiale è fatto ancora esclusivamente di Piavi che mormorano, suoli patrii, sublimi destini e via (retorica) discorrendo. E' un vero peccato, perché dai sussidiari delle mie scuole elementari il cammino percorso dagli storici è stato considerevole, anche se probabilmente altro rimane ancora da scrivere e da studiare.

Così, se nessuno neppure oggi si sogna di mettere in discussione gli atti di eroismo e di sacrificio che caratterizzarono quei terribili mesi, e gli esiti territoriali che ne scaturirono, gli innumerevoli convegni, pubblicazioni e documentari realizzati hanno messo nella giusta luce anche altri aspetti meno nobili, per molti anni volutamente trascurati. I motivi di queste letture parziali non sono difficili da comprendere: se i governi dell'immediato primo dopoguerra erano interessati a dipingere i successi militari ottenuti sul campo come una sorta di prosecuzione naturale delle guerre d'indipendenza risorgimentali, con il fascismo la retorica nazionalistica ha raggiunto l'apice, e l'effetto che si è prodotto a livello didattico è stato la stesura di libri scolastici imbottiti di lacune, omissioni, mistificazioni. Solo dopo il secondo conflitto mondiale la retorica ha cominciato a lasciare il passo alla verità, e la storiografia attuale è riuscita finalmente a liberare gli armadi dagli scheletri,  fornendo un quadro interessante e abbastanza completo.

In particolare oggi è possibile considerare gli avvenimenti non solo dal punto di vista dei vertici militari, e alla luce degli eventi bellici, ma anche da quello  dei combattenti: ed ecco che dalle lettere e dai diari emergono storie di eroismo, ma anche di rabbia per una guerra incomprensibile per i più, di ribellione agli ordini insensati degli ufficiali, di sofferenza atroce, di incredibili alleanze venutesi a creare in cima alle montagne fra soldati che la storia voleva nemici, ma che condividevano il comune vissuto contadino e la ribellione verso i potenti che li avevano strappati alla famiglia. Allo stesso modo gli archivi finalmente aperti ci consentono di illuminare i coni d'ombra più delicati, quelli relativi cioè agli errori strategici degli alti comandi, e alle vicende terribili delle decimazioni. E finalmente i libri possono parlare degli ufficiali responsabili di inutili massacri, come quelli che sul Col di Lana mandarono per mesi gli alpini all'assalto di una cima con ben poca rilevanza militare, causando la morte senza senso di centinaia di uomini. E raccontare anche della fine meno eroica, ma forse ancora più terribile dei tanti, tantissimi (qualche storico sostiene che morirono così  metà dei caduti nella guerra delle Dolomiti) che dal sole della Sicilia, della Sardegna o della Calabria vennero spediti nel ghiaccio a 2500 metri, senza attrezzatura e senza preparazione, e finirono i loro giorni congelati o precipitando nel vuoto.

Alla luce di tutto questo, mi permetto un appunto al giovane segretario del PD: la storia è una faccenda complessa, ma oggi esistono gli strumenti per non cadere vittima delle non sempre affidabili "versioni ufficiali" e per tentare una lettura critica degli avvenimenti. Suggerisco in particolare un paio di modi per riuscirci: la visione di due illuminanti pellicole, che hanno il merito di essere state fra le prime a spazzare via i fiumi sempre in piena della retorica ufficiale: Uomini contro di Francesco Rosi e La grande guerra di Mario Monicelli, e la visita dei musei  che, anche grazie al prezioso contributo di alcune brigate alpine, si stanno allestendo in molti siti dolomitici. Strisciando nelle trincee, leggendo le parole di poveri fanti diciottenni che non volevano essere eroi, ma semplicemente tornare a casa, i destini immortali e i sacri suoli cedono il posto alla pietà.

Invocare l'articolo 11 della Costituzione a proposito delle missioni cosiddette di pace mi sembra quantomeno azzardato. Ma questa è un'altra storia…

Nicoletta Bigatti

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