Referendum Popolari Cgil, nell’Alto Milanese più 7mila firme. I sindacati: “Tanti giovani”
Il sindacalista Mario Principe, segretario della Cgil Ticino Olona: "Abbiamo raccolto 7mila firma, un risultato inaspettato. Ma ciò che fa sperare è aver visto tanti giovani ai nostri banchetti"
Lavoro precario con salari troppo bassi e spesso anche insicuro. Non è uno slogan politico sindacale, ma una realtà quotidiana per i lavoratori. Il malcontento generale non manca: c’è chi è rassegnato e chi chiede un cambiamento come i cittadini dietro alle 7000 firme raccolte in poco tempo soltanto sul territorio dell’Alto Milanese. Firme registrate ai banchetti della Cgil Ticino Olona per i quattro referendum popolari sul lavoro. A fronte di ciò il sindacalista Mario Principe, segretario della Cgil Ticino Olona in questi giorni è tornato a parlare sui temi infortuni, morti sul lavoro e diritti negati. E lo ha fatto con decisione e forza per cercare di ribadire la necessità di attuare politiche che tutelino realmente i lavoratori e migliorino la qualità di vita di tutti. Politiche che i quattro referendum popolari promuovono.
In un contesto in cui manca «l’alfabeto stesso della dignità democratica», dove l’indifferenza è un comun denominatore proprio perchè non c’è “umanità del lavoro” il sindacalista vede una possibilità: «Abbiamo raccolto 7mila firma, un risultato inaspettato. Ma ciò che fa sperare è aver visto tanti giovani ai nostri banchetti convinti dell’importanza di questi quattro referendum. Quindi, in fondo al tunnel c’è sempre la luce».
La morte degli innocenti, tra diritti negati e indifferenza
La morte di Satnam Singh è l’ennesima orribile ed evitabile tragedia, che si alimenta grazie a un terreno coltura che è lo sfruttamento da parte delle imprese di migliaia di donne e uomini e il caporalato in tutto questo è solo un anello della filiera della disonestà nella quale cadono molto spesso cittadini immigrati, e non solo. E gli annunci che abbiamo ascoltato anche in passato di interventi risolutivi su questa autentica piaga, quando sono accadute tragedie come quella di Satnam Singh, si sono purtroppo ‘sgonfiati’ nel momento in cui l’attenzione mediatica si è spostata su altre notizie. Così le drammatiche storie di queste persone sono state dimenticate, e le vittime abbandonate a sé stesse.
Ma le immagini più terribili sono quelle che non abbiamo, visto, e che nessuno mai potrà mostrarci. Una morte sul lavoro: un dolore lacerante, immenso, inguaribile, una voragine in cui perfino le nostre parole sprofondano e perdono di senso. E qui finisce, appunto, il nostro sgomento, ma qui comincia anche il nostro dovere di parlare, di denunciare, di gridare che questo è già successo, che succede ogni giorno.
Ogni giorno in Italia almeno tre persone escono di casa per andare a lavorare, salutano, baciano figli, genitori, mogli, mariti, compagne, compagni, si avviano e non sanno che quella è l’ultima volta prima del buio, della fine. Che quel “ciao” si è già tramutato in un assurdo “addio”. Queste persone, lavoratrici e lavoratori senza volto perfino per le cronache del giorno, oggi verranno uccisi dai miasmi di una cisterna, cadranno da un ponteggio, rimarranno schiacciati o tagliati da un macchinario, finiranno sotto un treno o fulminati da un impianto difettoso. E con loro decine di feriti. stiamo parlando di uno scandalo infinito. Di una mancanza, appunto di “umanità del lavoro”.
Continuiamo a dire che il tema del lavoro, i contratti, la dignità di milioni di persone sono la questione centrale della nostra democrazia. Aggiungiamo che il diritto ad un lavoro sicuro deve essere il centro del nostro progetto di rappresentanza. Non si tratta di fatalità, lo sappiamo: la frequenza incredibile di questi accadimenti ci dice che è giunto il momento non di chiedere, ma di pretendere, non di trattare, ma di rivendicare, non di parlare, ma di ottenere. Ecco perché, dopo la consapevolezza, entra in gioco la forza, la capacità di presidio e di spinta, la mobilitazione a cui stiamo chiamando tutte e tutti.
Perché abbiamo assistito a due decenni di selvaggia deregolazione, di esternalizzazione, di precariato per cui si è creata una medesima cultura o, meglio, una incultura e una inciviltà imprenditoriale che considera il lavoratore di ogni categoria non come il centro, ma come un accessorio, un costo, un accidente necessario di cui ci si può servire o disfare al bisogno. In fin dei conti, un precario della scuola e uno della ristorazione non sono così diversi. Un infermiere che si trova esternalizzato in cooperativa e sottoposto a turni straordinari e massacranti non è lontano da un operaio che entra ed esce da ammortizzatori sociali e sussidi senza che nessuno si preoccupi di aiutarlo, formarlo con nuove competenze, accompagnarlo nel cambiamento, alla fine non è meno spaesato di uno stagista a cui – sotto la formula accattivante del “training on the job”, viene proposto un apprendistato sul lavoro che in realtà è pura contingenza e sfruttamento di breve periodo.
Tutte queste persone, questi esseri umani che vivono così, trattati come numeri o come cose, sono il sintomo ormai conclamato che questo paese ha smarrito la sua via maestra e il suo progetto, che ha smesso di leggere la Costituzione, che ha accettato di chiamare lavoro quella che è prestazione coercitiva e servile, senza volto, senza dignità, senza umanità appunto. E si collega, il tema di questa umanità offesa e sfruttata, con le grandi aree di povertà e di sottosviluppo del pianeta, che qualcuno già considera come potenziali serbatoi di risorse a basso costo, plasmabili a piacere perché disperate, affamate, in fuga da carestie e guerre. E su tutto questo, in mezzo a tutto questo ci siamo noi, la rappresentanza in tutte le sue articolazioni e forme, che continuiamo a dire e ripetere quello che anche nella prima ora di educazione civica a scuola dovrebbe risultare evidente, appena si legge l’articolo 1 della Costituzione.
Ma purtroppo quel Paese, quella Repubblica che i padri costituenti hanno voluto fondata proprio sul lavoro si ritrova ogni giorno vilipesa e offesa da un continuo attacco alle condizioni minime di garanzia e di dignità del lavoro stesso. È un attentato, un sabotaggio impunito alle regole stesse del gioco democratico. Questa è mancanza totale non solo della grammatica ma dell’alfabeto stesso della dignità democratica. La questione della sicurezza sul lavoro deve diventare la nuova questione nazionale. Non è un tema a cui devono guardare solo le donne e gli uomini del sindacato. Perché su questo, e non solo su questo, la politica e le istituzioni ci hanno lasciati soli. E noi siamo chiamati a rompere questa catena di isolamento e questa congiura del silenzio. Dobbiamo dire no al lavoro come condanna, come abuso, come morte annunciata. Perché i controlli, le regole, la cultura della sicurezza vengono sempre prima o prima dovrebbero venire. E quindi le questioni sono due: la prima, fare in modo tale che chi è negligente, disattento, approssimativo, giocando con la vita delle persone, spesso con colpa e talvolta pure con dolo, smetta di esserlo, la seconda che noi, la Cgil tutta, si faccia di più e meglio di quel che stiamo facendo.
Con un Governo latitante di fronte al tema della sicurezza. Con una responsabilità delle imprese e delle associazioni datoriali. E non ce ne stupiamo, perché chi per anni si è sottratto alla contrattazione, alla regolarità, al riconoscimento della dignità del lavoro, non puoi aspettarti che si interessi delle condizioni di sicurezza o di insicurezza in cui quel lavoro stesso si svolge. Chi è cieco verso i contratti lo è anche verso gli incidenti sul lavoro. Chi è sordo rispetto alle parole dei lavoratori lo è anche rispetto alle grida di dolore di chi piange i morti sul lavoro. Chi si volta dall’altra parte quando lo si richiama a regole di convivenza elementare si troverà sempre con le spalle voltate anche rispetto a chi muore. Chi non è datore, ma sfruttatore di lavoro, ovviamente trae il suo profitto anche da quella stessa caotica e perdurante assenza di regole e di controlli che genera incidenti e morti sul lavoro. Chi è sfruttatore non è solo il complice. È il mandante di questo orribile e continuato omicidio collettivo a danno delle lavoratrici e dei lavoratori.
Se sapremo riportare al centro del Paese la questione del lavoro, si determinerà un cambiamento anche sulla questione della sicurezza. Le due cose stanno insieme, perché sono le due facce della stessa medaglia. Per questo stiamo proponendo i 4 referendum sul lavoro, perché tengono insieme proprio questi due elementi lavoro meno precario e più sicuro lo stiamo facendo in un contesto complicato, penso al clima nel paese, l’indifferenza dilagante, l’insofferenza verso i corpi intermedi dove spesso si scaricano tutte le frustrazioni date da una condizione che dal punto di vista sociale è oggettivamente peggiorata, con un corto circuito, dove le responsabilità non vengono più distinte, sindacato e politica sono la stessa cosa e dove anche la politica è tutta uguale, ma non è così, perché se in Italia c’è il servizio sanitario nazionale lo si deve a una donna che si chiama Tina Anselmi e ancora se ci sono i congedi parentali è grazie a Livia Turco, ma nonostante tutto resto ottimista perché nel nostro territorio siamo riusciti a raccogliere 7000 FIRME a favore dei referendum sul lavoro della CGIL, molti giovani sono venuti a trovarci ai nostri banchetti, questo fa ben sperare perché viviamo tempi dove sembra che non si possa sfuggire all’indifferentismo (Calamandrei) e invece in fondo al tunnel c’è sempre la luce.
Mario Principe
Segretario Cgil Ticino Olona
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