A Rho fiaccole e palloncini per chiedere giustizia per Daniel, morto in carcere in Francia
A guidare il corteo la mamma, Branka, 43 anni, distrutta dal dolore e incapace di parlare, se non per dire con un filo di voce: “Me l’hanno ammazzato, devono pagare”
La musica trap, le fiaccole, i palloncini bianchi e i volti tristi. Si sono ritrovati in tanti dietro lo striscione che chiede giustizia per Daniel Radosavljevic, 20 anni, morto in un carcere di Grasse, in Costa Azzurra, lo scorso 18 gennaio.
A guidare il corteo la mamma, Branka, 43 anni, distrutta dal dolore e incapace di parlare, se non per dire con un filo di voce: “Me l’hanno ammazzato, devono pagare”. Con lei i due figli, che insieme a Daniel vivevano a Rho, vicino alla frazione di Mazzo. Il giovane frequentava Lucernate e i ragazzi del posto e proprio da qui è partito il corteo formato da un centinaio di persone che ha attraversato la cittadina, sotto l’occhio vigile della polizia locale. Tra amici e parenti, a dare parole di conforto, il prevosto don Gianluigi Frova che nel pomeriggio di mercoledì 15 febbraio ha celebrato il funerale di Daniel.
Il ventenne è stato trovato impiccato nella sua cella, dove era finito per aver forzato un posto di blocco e speronato le auto della Gendarmeria l’8 ottobre a Cannes. In carcere con l’accusa di tentato omicidio di un pubblico ufficiale, pochi giorni dopo quel tragico 18 gennaio avrebbe potuto incontrare i propri parenti.
Lo descrivono tutti come un ragazzo forte, solare, forse un po’ troppo vivace. Un bravo ragazzo che aveva avuto piccoli problemi con la giustizia, errori di gioventù, ma che aveva tanta voglia di vivere. Era andato in Francia senza dire nulla ai genitori e ai parenti. Daniel, come suo fratello, giocava a pallone alla Victor e stava studiando i primi rudimenti per diventare meccanico e coltivare la sua passione per i motori.
La famiglia di Daniel non si vuole arrendere, non vuole credere che il giovane si sia suicidato. Si è affidata all’avvocato Francesca Rupalti per arrivare a conoscere la verità, ma vuole chiedere con forza giustizia per Daniel con ogni mezzo possibile: «Daniel era un bravo ragazzo – ci spiega Victor, uno dei cugini che hanno partecipato alla fiaccolata di mercoledì 15 febbraio -. Non è giusto che una vita finisca a 20 anni in questo modo, in un carcere. Vogliamo sapere la verità, non ci fermeremo di fronte a nulla. Aspettiamo i risultati dell’autopsia, ci sono troppe cose che non tornano. Daniel era sereno all’inizio della detenzione, sapeva di aver commesso un errore ed era pronto a pagarne il prezzo. Negli ultimi giorni aveva manifestato preoccupazione, sia al telefono che scrivendo: aveva un diario dove ha riportato tutto, sentimenti, sensazioni, paure. Sul suo corpo ci sono ferite, ematomi e segni. Noi siamo certi che non si sia suicidato. Vogliamo la verità».
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