Ci vuole il seme per far crescere l’albero (omaggio a Bukowski)
di Abramo Vane
Sapete quei giorni in cui niente gira per il verso, ecco io me ne stavo appoggiato al bancone del bar di William, uno di quelli dove anche la birra ha perso ogni speranza, e NON CONSOLA COME DOVREBBE. Lo sguardo spento, le mani sporche di chi ha lavorato in officina tutto il giorno, e invece io non avevo fatto che dormire sul divano fino a quando mi sono dato una scossa ed eccomi qua, al mio posto, da bravo impiegato delle poste che timbra il cartellino e poi si perde nella monotonia dei giorni tutti uguali. William, un inglese con più cicatrici che sorrisi, è un gestore che ama i locali luridi, frequentati ovvio da uomini luridi che vanno lì per raccontare le loro storie luride.
Nessuno con un po’ di cervello avrebbe mai preso in considerazione un tale postaccio di periferia urbana. I nomi dei clienti William li volgarizzava in inglese, e così mi disse: “Charly, che diavolo è quel seme che tieni in mano?
“Guardai il seme che faceva giravolte, beato e contento, tra le mie dita, CONFORTATO DA UNGHIE NERE DI TERRA. “Non sai che da un seme nasce l’albero?” risposi freddamente, e William prese a canticchiare quella stupida canzonetta che insegnano ai bambini.
Per fare un tavolo ci vuole il legno, per fare il legno ci vuole l’albero, per fare l’albero ci vuole il seme, rise da presa per i fondelli e continuò: “E tu cosa ci fai con un albero, Charly?”
“Non mi sembri il tipo da giardinaggio”
“Chi ha detto che voglio fare il giardiniere?”, e lasciai cadere il seme in una vecchia lattina di birra vuota. “Voglio solo vedere se è vero… se da un piccoletto nasce qualcosa di grande”.
Gli altri avventori mi lanciavano sguardi interrogativi. Io, Charly, l’uomo che aveva affrontato ogni tipo d’inferno, adesso giocava con un semino.
“Non crescerà mai” commentò Maicol, un vecchio che aveva visto troppi inverni, “non in questo buco”. Sorseggiò la sua birra e cercò un discorso più realistico: “Charly, quand’è la prossima volta che vai all’obitorio e ci porti qualche bel cadavere? Io ci sto, ricordati”.
A casa presi un vasetto con terra buona e ci misi dentro il piccoletto. Lo poggiai vicino alla finestra e presi a innaffiarlo con acqua del condominio e fondi di birra artigianale.
NON ERO FINITO COME UOMO, AVEVO ANCORA DELL’INVENTIVA.
Una mattina mi svegliai, e un fragile germoglio verde era spuntato dalla terra secca. Non sono uno da metafore, lo sapete, ma in quel momento sentii che c’era ancora qualcosa in grado di sorprendermi. Una sfida. Un terreno arido come il mio cuore aveva contribuito a una nuova vita. Portai il vasetto da William e dissi chiaro: “Adesso ci pensate voi”.
Per essere speciale non avevo bisogno di bere birre e rubare cadaveri all’obitorio.
Racconto di Abramo Vane (www.ilcavedio.org) – 1. Serie “Alberi e Omaggi”.
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