Andrea Bajani: “Ho fatto una scorpacciata d’Italia grazie al premio Strega e al Campiello”
L'ultima intervista ai finalisti in cinquina al premio Strega, a poche ore dalla proclamazione, è dedicata all'autore di "Il libro delle case" che vive negli Stati Uniti dal 2020 ma è in Italia per un tour dovuto alla sua nomina in due dei più prestigiosi premi letterari italiani
L’ultima intervista ai finalisti in cinquina al premio Strega è dedicata ad Andrea Bajani, che vive negli Stati Uniti dal 2020 ma è in Italia per un tour letterario dovuto alla sua doppia nomina, nella cinquina di finalisti in due dei premi letterari italiani tra i più prestigiosi: il premio Strega e il premio Campiello.
Del suo “Il libro delle case“, l’ultima di una lunga serie di fortunate e premiatissime opere dell’autore, abbiamo molto parlato nell’intervista che trovate nel podcast qui sotto:
In questa intervista vogliamo trascorrere con lui le ultime ore prima del verdetto.
Innanzitutto, com’è stato tornare in Italia? Come è andato il tour per lo Strega, che l’ha visto protagonista anche sulle le sponde del Lago Maggiore? E da quanto tempo non tornava?
Ci siamo trasferiti a vivere a Houston a gennaio del 2020, poco prima che la pandemia chiudesse le porte del mondo. La prima conseguenza, tra le tante terribili che ben conosciamo, è che la terra si è ripresa la sue dimensioni naturali. Detto altrimenti, l’oceano, che divide America e Europa e che di solito si sorvola dormendo in aereo, è tornato a essere un’immensa distesa di acqua. Per cui ci siamo trovati chiusi, in qualche modo, dall’altra parte del mondo. Per cui la fame di Italia, se così si può dire, si è accresciuta di giorno in giorno, insieme a una specie di nostalgia. Tornare in Italia e partire per il doppio tour – Premio Strega e Premio Campiello – è stato prima di tutto fare una grande scorpacciata di Italia, che non avrei fatto altrimenti. Quello che è trovato è stato un paese bellissimo e ferito, in cui la voglia di riaprire la porta alla vita sta insieme alla paura di quello che aprendo potrebbe rientrare, e cioè la speranza che il covid19 sia una faccenda del passato, e però il timore che non lo sia».
Come si riempie un’attesa come questa? si cerca il sostegno degli amici, si fa finta di nulla, si continua a lavorare?
«In realtà non ho vissuto né vivo l’esperienza dello Strega e del Campiello come delle attese. Di fatto, questo è stato uno dei tanti benefici del tour sfiancante a cui ci siamo sottoposti e ci stiamo sottoponendo. Non c’è molto tempo per attendere: ogni giorno siamo su un palco e fare i portavoce del libro che abbiamo scritto. E persino il risultato, che pure in una competizione è saliente, giorno per giorno è un pensiero molto più che lontano. Si lavora duro – anche presentare, e non solo scrivere, è ahimé il nostro lavoro – e si cerca di essere all’altezza, o almeno somiglianti, a quello che si è scritto».
Nella scorsa intervista abbiamo saputo che ormai vive e lavora negli Stati Uniti: si sente un “pendolare della cultura” o un “cervello in fuga”? Insomma, con che sentimenti vive questa condizione?
«Con piacere, devo dire. Vivo nove mesi negli Stati Uniti e tre in Italia, ogni anno, il che mi consente la doppia esperienza dell’eccitazione del nuovo e della scoperta dell’altro. Mi ritengo molto fortunato, nel complesso: l’università è tra le migliori, Houston non è certo bella ma tiene insieme alcune faccende (petrolio, ricerca scientifica, arte) che sono al centro delle questioni di oggi. E dunque, per me è prima di tutto aprire occhi e orecchie e fare un percorso di conoscenza in un mondo che pensiamo ci assomigli ma che è radicalmente diverso. Il mio cervello, d’altra parte, non è in fuga: il mio editore è italiano, i miei libri sono scritti in italiano. Al contrario, direi che ogni giorno scrivendo, porto all’Italia nutrimento nuovo, con i reportage che scrivo per il Venerdì di Repubblica e con i libri che per ora appunto soltanto e forse un giorno scriverò».
È docente di letteratura alla Rice University, in Texas: com’è la letteratura della nostra nazione vista da li, e che feedback riceve dai suoi studenti?
«Gli Stati Uniti, rispetto all’Europa, traducono molto poco. Scrittori da noi molto noti negli Stati Uniti sono o sconosciuti o di nicchia, o inesistenti. C’è molto da fare perché la letteratura trovi spazio, e figure come la scrittrice premio Pulitzer Jhumpa Lahiri stanno facendo molto perché sia più conosciuta. Io, nello specifico, insegno creative writing – ovvero scrittura creativa e letteratura – ed è un’esperienza a dir poco entusiasmante. Di certo, è quello che al momento mi piace fare di più. Il fatto che poi molti dei miei studenti arrivino da facoltà scientifiche, rende tutto ancora più sorprendente e gratificante. Perché porta alla scrittura immaginari differenti rispetto ai soliti percorsi umanistici. E d’altra parte un po’ di scrittura e di letteratura non può che far bene ai futuri ingegneri, fisici, biologi americani. Farebbe bene anche ai futuri ingegneri, biologi, fisici italiani».
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