Dell’Acqua (UIL): “Minimi salari per legge o efficacia universale dei contratti collettivi? Dipende dal Sindacato”
Secondo il sindacalista, la via maestra è quella dell’attuazione dell’art. 39 della Costituzione, che però impone ai Sindacati Storici di uscire da un’ambiguità che prevede più diritti che doveri, più consuetudini che regole, più tutele che responsabilità
Una riflessione sul salario minimo legale di Stefano Dell’Acqua, sindacalista responsabile Ur Uil Ovest Mi-Lo introduce un argomento di assoluto interesse anche a livello locale. Il tema impone ai sindacati, per primi, alcune considerazioni proprio sul loro ruolo, perchè, come rileva lo stesso autore del testo, “una fattibilità rende evidente che la via maestra è quella dell’attuazione dell’art. 39 della Costituzione, che però impone ai Sindacati Storici di uscire da un’ambiguità che prevede più diritti che doveri, più consuetudini che regole, più tutele che responsabilità”. Insomma, una questione che pone il mondo sindacale davanti a un bivio e, se a farlo presente, è uno stesso sindacalista si intuisce bene come l’argomento meriti giusta attenzione.
Riprendo una riflessione sul “Minimi salari per legge” lasciata alla tavola rotonda del novembre 2019 pre pandemia sanitaria.
Discutere sull’introduzione in Italia del salario minimo legale richiede dare risposta a due questioni: primo, è necessario? Secondo è fattibile?Quanto alla prima, occorre puntualizzare che la retribuzione minima è determinata dalla contrattazione collettiva nazionale, al netto delle valutazioni giuridiche e politiche, presenta falle visibili: sono esclusi non soltanto i lavoratori non formalmente subordinati (p. IVA e Collaborazioni economicamente dipendenti, lavorativi attivi su piattaforme informatiche) ma anche (a parte ovviamente i lavori in nero) lavoratori riconducibili a Contratti Collettivi formalmente corretti ma conosciuti come “pirata”. Il CNEL, infatti, ammesso e non concesso, che i contratti sottoscritti dalle Organizzazioni Sindacali tradizionali siano “anomali” ci dice che dei contratti vigenti solo il 33% è firmato dalla Cgil e/o Cisl e/o Uil. Confindustria da parte sua firma solo il 14% dei contratti vigenti. Nel settore del commercio, per esempio, esistono 192 contratti vigenti, dei quali solo 23 firmati da Cgil, Cisl, Uil. Se questi contratti esistono evidentemente è perché presentano dei vantaggi rispetto ai CCNL “classici”; difficilmente vantaggi a favore dei dipendenti. Difficile determinare il numero di lavoratori cui si applicano questi trattamenti (le stime parlano di 5 milioni), che però mediamente prevedono minimi tabellari inferiori dal 7% a quelli dei CCNL CGIL CISL UIL e molto spesso una mensilità in meno.
Un dato più preciso viene dall’INPS; la retribuzione oraria minima media prevista dai CCNL “regolari” (da notare che formalmente registrati sono tutti i contratti al CNEL, quindi anche quelli che definiamo “pirata”)era nel 2015 di 9,41 € (comprensiva di tredicesima) ma nel 2017 ben il 22% dei lavoratori percepivano meno di 9€, con punte notevoli tra donne, giovani e regioni del Sud. Interessante notare che il salario orario minimo mediano”, cioè quello che si colloca a metà strada tra il valore minimo e quello massimo, è di 11,77 €: il minimo salariale medio è dunque pari all’80% del mediano. In Francia è il 70% e in Germania il 50%, il che mostra che la curva salariale legale (al netto cioè del lavoro sommerso) in Italia è schiacciata, oltre a presentare valori assoluti piuttosto bassi: nel 2018 20 € medi, (ossia il monte salari diviso per il numero dei salariati) contro 23 dell’area Euro e 21 dell’UE.
Per individuare un valore accettabile del salario minimo orario medio può essere utile fare riferimento alla situazione in Germania e Francia, i due Paesi più simili al nostro per dimensioni di mercato e struttura produttiva.Nel 2017 in Germania il salario lordo minimo orario è pari a 8,50 €, e rappresenta il 54% della retribuzione media mensili corrente (2.719 €). In Francia è di 9,61 €, e il salario minimo rappresentava il 70% di quello medio (2.356 €) in Italia la retribuzione mediana è di 11,37 € e il salario medio (2.033 €.).
Se dovessimo prendere a riferimento il dato della Germania, quindi mirare ad un salario legale che copra il 54% della retribuzione media, dovremmo garantire un mino orario di 6,35 €, che genera una retribuzione mensile di 1.098 € lordi.
Se prendiamo a riferimento la Francia, il minimo orario rappresenta il 70% del salario medio: noi dovremmo istituire un minimo orario di 8,22 € (la formula è la seguente: paga oraria * 173 (orario mensile medio convenzionale = paga mensile). Questo livello minimo comporterebbe un aumento per circa il 15% dei lavoratori dipendenti, e coinciderebbe grosso modo con i minimi tabellari “minimi” del CCNL meno “ricchi” (es. trasporto e logistica). Se vogliano ragionare sull’utilità di tale provvedimento occorre fare riferimento soprattutto alla possibilità che il salario minimo per legge non definisca solo il minimo orario per i lavoratori subordinati standard, ma anche i minimi per chi è pagato al pezzo o a consegna, ispirandosi al metodo proposto dalla Low Pay Commission nel Regno Unito. Tuttavia anche per i dipendenti standard, oltre a quel 5% che sta sotto il minimo ipotizzato, sono prevedibili effetti positivi: un effetto “onda” sul resto della retribuzione per mantenere un minimo di differenziale tra lavoratori con diversi ruoli e competenze per cui anche i salari superiori al minimo tendono ad aumentare, è noto agli economisti.
Un’ipotesi che finora non abbiamo visto emergere nel dibattito italiano è quello di aumentare il valore dei salari minimi utilizzando riduzioni mirate delle imposte sul reddito o dei contributi sociali dei dipendenti per i lavoratori a basso reddito. In questo modo l ‘aumento dei minimi non creerebbe peggioramento nei conti per le imprese, ma trasferirebbe gli oneri sulla spesa pubblica; tuttavia non è una soluzione molto diversa o molto più costosa dei provvedimenti, in parte già in atto e/o previsti dalla Legge di Bilancio, per incentivare l’assunzione di varie tipologie di lavoratori.
Si può però obiettare che l’introduzione di un minimo obbligatorio, tanto più così a ridosso del valore mediano come sarebbe fissandolo, come detto prima, a 8,22 €, contribuirebbe ad allineare più di quanto già non siano i diversi CCNL di Categoria e le retribuzioni contrattuali nelle diverse aree del Paese. Soprattutto per questo secondo aspetto, l’introduzione di un salario minimo legale avrebbe gli effetti di rafforzare gli squilibri già presenti tra valore nominale del salario e potere d’acquisto reale nelle diverse aree del Paese: come osserva Pietro Ichino in Italia il potere d’acquisto dei salari è più alto nelle Regioni dove la produttività è più bassa, e viceversa, mentre in Germania il rapporto tra potere d’acquisto e produttività è diretto, anziché inverso. Le risposte a questi problemi non possono essere che due: o stabilire minimi differenziati per territorio ed eventualmente per comparto produttivo, oppure introdurre un minimo correlato al rapporto massimo tra potere d’acquisto e salario nominale, il che porterebbe il minimo ad un livello sensibilmente inferiore agli 8,22 € prima ipotizzati, con il probabile effetto collaterale di incentivare la contrattazione collettiva legata alla produttività, ma non produrrebbe effetti positivi per le retribuzioni molto basse, ossia per coloro che dovrebbero essere i beneficiari del salario minimo legale.
Ancor più difficile, e veniamo alla seconda questione, da superare è l’ostacolo di carattere istituzionale e politico che viene posto soprattutto, ma non esclusivamente, dai Sindacati, i quali temono un indebolimento del potere negoziale e una migrazione di aziende dal CCNL al salario minimo legale. Una preoccupazione legittima, ma che non ha riscontro dalle vicende di altri stati europei a forte sindacalizzazione dove è stato introdotto il minimo legale, in primis la Germania.
Andrea Garnero mostra come il salario minimo sia piuttosto un risultato dell’indebolimento della contrattazione collettiva e non la causa: il numero crescenti di contratti c.d. pirata e il numero significativo di lavoratori pagati meno dei minimi contrattuali visti prima, sollevano in effetti dubbi sulla capacità del sistema di contrattazione collettiva italiano di proteggere i lavoratori più deboli e difendere le imprese da concorrenti spregiudicati.
Del resto per oltre 70 anni il Sindacato Italiano ha tratto parziale vantaggio da una situazione di ambiguità circa la propria natura e il proprio ruolo all’interno del sistema economico; il Sindacato Confederale, erede del Sindacato Unico istituito ad opera del CNEL, hanno avuto incontestabilmente e con l’eccezione di qualche particolare situazione, il quasi monopolio della rappresentanza sindacale, istituzionalizzato dalla L. 300 con la formula dei “Sindacati comparativamente maggiormente rappresentativi”. Formula che non regge più e richiede una più trasparente verifica come per altro già accettato in linea di principio dalle principali Organizzazioni Sindacali e Datoriali, in mancanza della quale non esiste alcuna possibilità legittima di conferire valore erga omnes a qualsivoglia accordo collettivo; né d’altra parte può ancora offrire durevoli garanzie la consolidata giurisprudenza per la quale la “equa retribuzione” prevista dalla Costituzione si identifica nei minimi tabellari fissati dai CCNL sottoscritti dai “sindacati maggiormente rappresentativi”: capita che un accordo sia firmato solo da una o due sigle sindacali su tre, e ancor più di frequente accade che il dipendente sottopagato (per non parlare dell’autonomo economicamente dipendente) non abbia il coraggio, la determinazione e la forza di aprire una causa legale il cui esito è abbastanza probabile ma non certo, mentre la violazione di un obbligo di legge (il salario minimo legale) potrebbe essere sanzionato anche dall’Ispettorato del Lavoro e con esiti sicuri.La soluzione al problema è teoricamente molto semplice: l’attuazione dell’art. 39 della Costituzione che, nell’affermare che l’associazione sindacale è libera e quindi la costituzione di un sindacato è un diritto disponibile per tutti, indica anche la regola che dalla pluralità di Associazioni Sindacali può condurre all’unicità del Contratto Collettivo Nazionale: quella per cui tale diritto spetta alla coalizione sindacale formata da organizzazioni legalmente costituite e registrate che rappresentino la maggioranza dei lavoratori interessati al Contratto. Il conteggio degli iscritti e anche quello delle Rappresentanze Sindacali in azienda non è complicato: esistono già le intese di massima con l’INPS.
Del resto nei fatti il principio è già applicato nella contrattazione aziendale, dove l’efficacia dell’accordo è sancita dal voto a maggioranza da parte delle Rappresentanze Sindacali Unitarie o da un referendum di tutti i lavoratori.
Esiste naturalmente la possibilità di cambiare la Carta Costituzionale (ma non la più bella del mondo?) levando dall’art. 39 l’obbligo di registrazione. Sarebbe forse un po’ difficile da spiegare in occasione dell’inevitabile referendum confermativo che seguirebbe… D’altra parte si fa fatica a vedere un’altra strada: l’erga omnes di Contratti Collettivi non potrebbe essere intrapreso senza inevitabili ricorsi alla Corte Costituzionale, dall’esito altrettanto inevitabile.In definitiva le opzioni sono le seguenti:
1. Rinunciare ad intervenire sui minimi fissati dai diversi contrati, lasciando libere le dinamiche di mercato salvo la possibilità dei singoli di rivolgersi alla Magistratura.
2. Istituire per legge il salario minimo, tenendo conto di tutte le possibili variabili prima descritte.
3. Dare attuazione all’art. 39 nella sua versione integrale, o successivamente ad una sua modifica con Legge Costituzionale.E’ evidente che la via maestra è quella dell’attuazione dell’art. 39, che però impone ai Sindacati Storici di uscire da un’ambiguità che prevede più diritti che doveri, più consuetudini che regole, più tutele che responsabilità. D’altra parte non si può essere depositari di un diritto valido erga omnes senza che gli “omnes” ti vincolino a qualche regola….. Pensiero comune condiviso con la Fondazione Anna Kuliscioff.
Stefano Dell’Acqua
Responsabile Ur Uil Ovest Mi-Lo
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