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Il giorno e la storia – 15 ottobre 1945, Luigi Caironi: «Ero alla stazione di Legnano. Pesavo 42 chili…»

Un ricordo del comm. Luigi Caironi, storico presidente della Famiglia Legnanese, prigioniero di guerra, riuscì a tornare a casa e, con lui, tutti i 22 ragazzi del Genio che erano sotto la sua responsabilità

Il giorno e la storia, mese di ottobre

Da un’intervista rilasciata dal Comm. Luigi Caironi, storico presidente della Famiglia Legnanese, ad Alberto Centinaio, che ringraziamo per averla messa a disposizione.

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«Il 19 settembre del ‘43 fummo caricati insieme agli altri prigionieri su un carro bestiame e trasferiti in Pomerania, al campo di lavoro “Stammlager II B”. Là si trovavano più o meno 150mila prigionieri di tutte le nazionalità. Fummo abbandonati in un cortile coperto di neve, poi ci spogliarono per un’ispezione. Avevo ancora il portafoglio, la catenina d’oro, una penna col pennino d’oro e la mia pistola con otto colpi nel tamburo. Ero deciso a non farmi portare via la mia roba, così la nascosi nella neve. Se non ci avessero fatto muovere avrei recuperato tutto più tardi. Tenevo soprattutto alla pistola. L’ultimo colpo l’avrei tenuto per me, ma con gli altri sette avrei venduto cara la pelle. Mi andò bene e riuscii a recuperare tutta la mia roba».

«Nel nostro settore c’erano quattro capannoni con mille prigionieri ciascuno. Nel centro c’era una torretta con fari e mitragliatrici, su tre lati altrettante latrine. Non avevamo coperte, dormivamo in letti a castello di tre piani. Da mangiare ci davano una minestra fatta di rape e brodo di pecora. Tra il brodo e il freddo di notte molti si alzavano a pisciare, ma il regolamento del campo prevedeva l’obbligo di arrivare alle latrine. Chi non ce la faceva e si fermava nel cortile veniva falciato dalle mitragliatrici, per questo molti preferivano farsela a letto. E per questo io dormivo sempre sull’ultima branda del castello.»

Alla liberazione «dopo due giorni fummo consegnati ai russi. Avrebbero dovuto riportarci in Italia, invece dal momento che avevano bisogno di manodopera ci deportarono in un campo di concentramento vicino a Varsavia. In questo nuovo campo restammo da aprile ad ottobre: all’inizio c’erano 7000 prigionieri, un po’ di tutte le nazionalità. Poi scoppiò un’epidemia di tifo e colera che durò 40 giorni, morirono quasi 4000 persone. Il campo era gestito dai “figli di Stalin”, ragazzotti di 16 o 17 anni rozzi e ignoranti. Ci consideravano traditori della nostra patria, ogni pretesto era buono per spararci addosso.

Un prete che parlava russo e tedesco si travestì da laico e corse a cercare aiuto. Ci vollero settimane, alla fine arrivò una pattuglia della Croce Rossa. I “figli di Stalin” fecero prigioniera anche quella pattuglia, quindi gli americani portarono i carri merci per rimpatriarci. Ma i russi li usarono per portare via tutto ciò che riuscirono ad arraffare. Alla fine arrivò l’esercito americano, che si fece garante del nostro rientro.

Il 5 ottobre partimmo alla volta dell’Austria. Il 15 ero alla stazione di Legnano, dove rividi mio fratello. Pesavo 42 chili, in tasca avevo ancora il mio portafoglio e la mia pistola. Tutti i 22 ragazzi del Genio che erano sotto la mia responsabilità erano tornati in patria: 21 sulle loro gambe, uno su una barella della Croce Rossa. Alla fine si salvò anche lui».

FONTE: intervista realizzata da Alberto Centinaio e conservata nel suo archivio personale

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Pubblicato il 15 Ottobre 2020
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