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Il giorno e la storia – Luigi Botta: “Il mio anno di quinta elementare”

Il presidente onorario della sezione legnanese ANPI ricorda il suo ultimo anno di scuola elementare alle Cantù

Il giorno e la storia

3 ottobre 1944 – Il mio anno di quinta elementare
Di Luigi Botta
Scuole elementari Cesare Cantù. Scrive una maestra di quinta femminile: «3 ottobre. Le lezioni vengono frequentemente interrotte ogni giorno e più volte nel corso delle lezioni dagli allarmi. A compimento dell’opera muratori che innalzano pali e lavorano nei corridoi e nelle aule vicine, profughi che vanno e vengono per i corridoi, cantando e vociando tanto che alle bimbe non par neanche di esser a scuola.»

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Il giorno e la storia, mese di ottobre 4 di 20

Capita ormai da qualche tempo che, all’inizio di ogni anno scolastico, mi ritrovo a ricordare i miei anni di alunno alle scuole elementari Cesare Cantù ed in particolare il mio anno di quinta che fu il più disagiato: l’anno 1944/45.
Già dal primo giorno avemmo delle sorprese: era sparita la cancellata che recintava la scuola ed era rimasto solo il muretto in cemento. “Ferro alla Patria – ci spiegò il maestro Giulio Mombello – per fare le armi”. Di riflesso ricordai che anche mia madre non aveva più la vera nuziale in oro ma una semplice vera in alluminio. All’interno era la scritta “oro alla Patria”. Il regime fascista, che governava allora, elenchi dell’anagrafe alla mano, aveva sequestrato le vere d’oro a tutte le donne coniugate. Anche nel cortile della scuola il nostro “orticello di guerra” non era più riconoscibile. Tutto arso dal sole. Secondo le direttive del Provveditorato per settimane l’anno prima avevamo portato ogni mattina un sacchetto di terra dei campi per fare delle aiuole. Ci avevano poi istruiti a seminare patate, carote ed ortaggi vari. C’era la guerra e ci veniva insegnato che ognuno doveva dare il proprio contributo per sopperire alla scarsità di cibo. Le patate erano preziose allora. Di notte da Legnano partivano gli uomini per Uboldo dove potevano comperarle, a mercato nero naturalmente. Salvo poi vedersele sequestrare dai brigatisti neri che pattugliavano i confini di Legnano. Chissà se il tutto veniva poi consegnato all’ammasso o si perdeva per strada. E poi perché Uboldo. Anche per noi ragazzi quando qualche nostro amico tardava a venire era uso dire “ma dove sei stato? A Uboldo a prendere le patate?” In dialetto naturalmente.

Quello che più mi colpì allora fu l’entrata nel plesso scolastico. Anziché entrare nell’aula bella di quinta, quella in fondo al corridoio con banchi belli e la scritta sul muro dietro la cattedra “libro e moschetto balilla perfetto” firmato: Mussolini, ci trovammo ammassati nel corridoio. La maggior parte delle aule era stata occupata da quelli che tutti chiamavano “gli sfollati di Montecassino” anche se le provenienze erano diverse. Erano le famiglie di personaggi compromessi col regime che, con l’avanzare degli americani dal sud, erano scappati al nord sotto l’egida della repubblica fascista. Erano loro i veri “inquilini” della Cantù. Andavano, venivano, facevano baccano senza riguardo alcuno. E nei corridoi cucinavano. Ancora ricordo il profumo del burro fuso e delle bistecche da loro preparate di cui non avevo quasi più il ricordo. A quel ben di Dio si contrapponeva la minestra che mi attendeva a casa, quella fatta con la cosiddetta “pasta saggina” acquistata con la tessera annonaria. Era così chiamata perché la pasta era un macinato di grano e di quella specie di lenticchie che nascono sulle piantine di saggina, graminacea che serviva per lo più a fabbricare le scope. Su quelli di Montecassino nella zona in cui io abitavo, via Bramante, circolavano delle voci non buone. Bisognava stare attenti perché alla sera, durante il coprifuoco (col buio non si poteva uscire di casa se non si aveva un particolare permesso) giravano attorno alle abitazioni e origliavano alle finestre per scoprire chi fosse in ascolto di radio Londra per poi denunciarli alla polizia.

Il primo giorno di scuola quell’anno iniziò con la Messa nella chiesa di Legnanello, celebrata dal coadiutore don Mario Stucchi e servita da due chierichetti: uno era il mio compagno di classe Mario Uboldi e l’altro ero io.
Poi i giorni si susseguirono con continue interruzioni a causa degli allarmi aerei, con la sirena posta sul tetto della scuola che ci martellava le orecchie. Noi di quinta dovevamo scendere nella cantina trasformata in rifugio antiaereo. I più piccoli invece venivano ritirati dai parenti o da conoscenti. Poche le ore di lezione e poco proficue. L’inverno fu molto freddo con la neve che raggiungeva il mezzo metro. Le aule erano gelide, mancavano carbone e legna per la caldaia. Non si riusciva a scrivere perché l’inchiostro gelava nei calamai, le mani erano arrossate dai geloni, le scarpe tamburellavano sotto i banchi nell’intento di riscaldare un poco i piedi. Tutti noi eravamo imbacuccati, l’alito si congelava appena si apriva bocca per parlare.

La Superiore Sede decise così di anticipare la chiusura della scuola e di allungare il periodo delle vacanze natalizie, capodanno ed Epifania. Ritornammo a scuola e rientrammo nella nostra aula di quinta. La sirena, spesso più volte al giorno, interrompeva le lezioni e, dall’insieme dell’insegnamento, credo di non aver imparato molto. Dopo due mesi circa di lezioni troppo spesso interrotte arrivarono le vacanze pasquali che, se ricordo bene, iniziarono a fine marzo. Poi l’interruzione per il periodo del 25 aprile.

La normalità arrivò più di un mese dopo e durò fino a giugno con gli esami. Dal muro dietro alla cattedra la frase di Mussolini era sparita. Promossi tutti, almeno così credo. Nonostante la mia impreparazione mi portai a casa un “lodevole” che era allora il voto massimo. E fu il voto più alto di tutta la mia vita di scolaro.
Per le elezioni nazionali e comunali per un certo numero di anni la Cantù fu sede di votazione. Una volta, uscendo dalla cabina elettorale, percorsi l’ampio corridoio fino in fondo, aprii non visto la porta di quella che era stata l’aula della mia quinta elementare ed entrai. Mi ritornò tutto in mente, mi immaginai di vedere tutti i miei compagni di classe ed il volto paterno del maestro Mombello. Ne uscii quasi subito con l’animo colmo di tristezza.

Luigi Botta

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Pubblicato il 09 Ottobre 2020
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