Quello che ci ha tolto e quello che ci ha dato questo virus
La malattia che ti tocca da vicino, la quarantena, l'importanza di non perdere la bussola e la speranza di prendere il buono che la pandemia ci lascia e trasmetterlo alle generazioni future
Mia figlia Elsa non vuole che lo si nomini. In casa abbiamo inventato diversi nomignoli per non pronunciare la parola coronavirus davanti a lei e quindi il coso, il mostriciattolo invisibile, il cattivissimo covid viene tutt’ora trattato da me e la mia compagna (che per inciso fa il mio stesso lavoro) nei rari momenti in cui lei dorme o sta giocando in un’altra stanza della casa.
A lei, dal 24 febbraio, ha tolto i compagni dell’ultimo anno di asilo (crisalidi di amicizia che non si sa più se si trasformeranno in farfalle) e per mesi l’unico nutrimento di questi rapporti sono state le videolezioni e le videochiamate attraverso lo schermo di un computer o di uno smartphone.
Ad entrambe le mie figlie ha tolto la quotidianità fatta dei loro nonni, cugini, zii per un periodo troppo lungo. Alla mia compagna stava per togliere un padre che ha lottato come un leone e ne è venuto fuori dopo quasi due mesi. A tutti noi ha tolto molte certezze che davamo per scontate: l’abbraccio di una persona cara, uscire per una passeggiata fino al parco, l’attività sportiva, le facilità del vivere in una città con quasi tutto a portata di mano. Improvvisamente il grande brusio della vita si è ridotto in un silenzio che andava riempito.
Abbiamo inventato oggetti e storie, abbiamo ballato, cantato, litigato, letto libri, imparato a fare cose nuove per riempire quel silenzio e per non farci sopraffare dalla paura che potesse durare per sempre. In tutto questo periodo ci siamo aggrappati l’uno all’altro. Io mi sono aggrappato alle mie bambine e alla volontà di ridare loro la vita che avevano. Ho seguito come meglio ho potuto le indicazioni, spesso anche contraddittorie, che arrivavano dal governo con la sua task force e dalla Regione con i loro regolamenti particolari.
Ho sofferto la lontananza dal mio sfogo settimanale, il calcio, e la lontananza dai colleghi di lavoro (che sono qualcosa di più che semplici colleghi), dagli amici e dai parenti. Ho sofferto il soffocamento dei palazzi che non mi davano la possibilità di guardare lontano. Non credevo potesse essere così dura, dal punto di vista mentale, ma credo di esserci riuscito mantenendo un discreto equilibrio.
Tutto quello che è accaduto in questi mesi l’ho vissuto tenendo la barra dritta verso un orizzonte immaginario in cui vedevo le mie bambine, ormai diventate grandi, raccontare il momento storico che stiamo vivendo come l’origine di una nuova era quando tutto cambiò e gli uomini smisero di pensare ognuno per sé perché si resero conto di essere tutti uguali davanti ad uno degli essere più piccoli che vivono sulla terra.
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