Leila Borsa dall’Ospedale di Legnano all’Afghanistan con Emergency: «Qui tutto è una sfida»
Leila Borsa, infermiera all'Ospedale di Legnano, da febbraio è in Afghanistan e lavora al centro chirurgico per vittime di guerra di Emergency a Lashkar Gah
Seimila chilometri. Seimila chilometri tra l’Italia e l’Afghanistan, segnato negli ultimi mesi dalla campagna lampo dei talebani per riconquistare il Paese, dal ritiro delle truppe americane fino alla caduta di Kabul. Seimila chilometri tra l’Ospedale di Legnano e il centro chirurgico per vittime di guerra di Emergency a Lashkar Gah (foto nell’articolo di Vincenzo Metodo). Seimila chilometri che vogliono dire una vita nuova per Leila Borsa, infermiera 32enne di Dairago con alle spalle una laurea in scienze linguistiche, una in scienze infermieristiche e un master in medicina di urgenza che dal 6 febbraio, dopo i mesi in prima linea contro la pandemia, ha lasciato temporaneamente il pronto soccorso della Città del Carroccio per un’altra e ben diversa prima linea: quella dell’associazione umanitaria fondata da Gino Strada.
Leila, da dove nasce la scelta di Emergency e dell’Afghanistan?
Volevo fare un’esperienza di questo tipo già da anni, ci penso fin dal 2015. Allora però non avevo le competenze e l’esperienza richieste per Emergency. L’anno scorso, quando ormai avevo maturato tutti i requisiti necessari, mi sono candidata e i colloqui che ho fatto sono andati a buon fine: mi è stato chiesto se avessi preferenze sulla destinazione, c’erano posizioni aperte in Sierra Leone e in Afghanistan e ho chiesto di poter andare in Medio Oriente.
La partenza è arrivata dopo mesi che per medici e infermieri non sono stati “normali” nemmeno in Italia…
Ho inviato la candidatura a giugno dell’anno scorso, quindi subito dopo la prima ondata della pandemia: c’era la voglia di cambiare, un po’ di stanchezza per il Covid, il desiderio di vivere qualcosa di nuovo e di mettersi alla prova e questa esperienza ha significato mettersi alla prova sotto sotto tanti punti di vista: quando sono arrivata non avevo idea di cosa fare e tutto è stato una sfida.
Com’è stato il primo impatto una volta scesa dall’aereo?
Appena sbarcata a Kabul il primo pensiero è stato “sono davvero nell’Afghanistan che si vede in tv”. Quando sono arrivata a Lashkar Gah l’impatto è stato molto forte: c’è una barriera linguistica importante e puoi parlare solo con il personale che parla inglese e non con i pazienti e il lavoro è molto diverso da quello di casa, ma è stato tutto molto stimolante. Qui faccio molto di più di quello che solitamente faccio come infermiera, è proprio un’altra prospettiva sul mio lavoro.
Gli ultimi mesi hanno cambiato la storia dell’Afghanistan. Come li hai vissuti?
Il 2021 è stato finora l’anno più intenso per l’Ospedale di Lashkar Gah: guardando le statistiche, i pazienti sono stati circa il 40% in più rispetto al passato. Già ad aprile con l’inizio del Ramadan i combattimenti si sono intensificati, e poi ancora di più da maggio con il ritiro delle truppe americane: il numero dei pazienti è aumentato, sono arrivati feriti da tutta la provincia dell’Helmand e anche da quella di Kandahar. Il picco è stato quando i talebani sono arrivati in città. Il nostro è un ospedale per feriti di guerra, i nostri criteri di ammissione di permettono di accettare pazienti feriti da proiettili, mine o schegge da esplosione di ordigni, ma in periodi più tranquilli riusciamo ad accettare anche traumi civili, soprattutto bambini. In questo periodo, invece, non siamo riusciti a farlo: abbiamo dovuto aggiungere posti letto per i feriti di guerra e per settimane abbiamo potuto accettare solo pazienti in pericolo di vita dirottando in altre strutture i feriti che non necessitavano di chirurgia maggiore. Gli ultimi giorni sono stati decisamente più tranquilli, quindi stiamo liberando posti letto e tornando alle attività temporaneamente sospese per l’emergenza.
Una “tregua” dopo tanti giorni in cui siete dovuti rimanere in ospedale…
Fino a domenica scorsa abbiamo vissuto in ospedale, per 17 giorni siamo rimasti qui per ragioni di sicurezza: muoversi per strada e in città non era sicuro al 100%. Nelle settimane in cui c’è stato l’attacco a Lashkar Gah ci sono stati grossi problemi: le strade erano chiuse e non tutti riuscivano ad arrivare al lavoro, tanti si sono ritrovati senza casa e hanno dovuto evacuare la famiglia e sono scappati in altri distretti. Ciononostante l’ospedale è andato avanti: i nazionali hanno lavorato anche per giorni di fila senza battere ciglio. Da venerdì invece sono rientrati tutti al lavoro, anche chi aveva lasciato la città, e Lashkar Gah si è ripopolata: ora vedremo come andranno le prossime settimane,
Insomma, settimane che riscrivono il concetto di paura…
Dopo aver sentito i vetri che tremano e le porte aprirsi per l’onda d’urto delle bombe di fianco all’ospedale, dopo aver visto atterrare un razzo nel giardino, tutto il resto è relativo. Ci sono state esplosioni molto forti e vicine in cui ho visto i colleghi nazionali spaventarsi, ad esempio quando è esplosa un’autobomba nei dintorni e il personale che era fuori in giardino è subito rientrato in ospedale nonostante si tratti di persone abituate a tutto questo. Dopo i primi giorni di grossi bombardamenti, però, ci siamo abituati anche noi.
Saresti già dovuta tornare a casa, invece sei ancora lì… Cosa ti fa rimanere?
Sarei dovuta tornare a casa circa un mese fa, ma per ora ho esteso il mio periodo di aspettativa dall’Ospedale di Legnano: stiamo cercando di capire come muoverci anche in accordo alla situazione dal momento che qui siamo solamente in tre internazionali e se tutti ce ne andiamo senza che nessuno ci sostituisca l’ospedale finirebbe per chiudere nonostante sia l’unico attrezzato per un certo tipo di chirurgie e serva un territorio vasto. Certamente qui arrivano tantissime soddisfazioni, dal personale che lavora perché ci crede e continua a crescere professionalmente ai pazienti: i bambini sorridono e gli adulti, anche se non capiscono quello che dici, ringraziano sempre. Il nostro lavoro poi in questi mesi ha portato tanti cambiamenti e tanti miglioramenti, e questo è un incentivo fortissimo.
Chi è la Leila che tornerà a casa rispetto alla Leila che è partita?
È un’altra Leila. Me l’avevano detto prima di partire e me ne sono accorta dal modo molto più pacato con cui mi approccio alle persone e al lavoro e reagisco alle situazioni. Penso molto di più prima di agire: è un modo di vivere che fa parte della cultura che ho incontrato in Afghanistan ed è quello che serve per andare avanti qui, senza rispondere in modo tranquillo alle situazioni non si riuscirebbe ad affrontare tutto questo.
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