In pellegrinaggio a Mauthausen con le scuole di Legnano, il diario del liceale Davide Moroni
In occasione della Giornata della Memoria proponiamo la pubblicazione del toccante diario scritto dallo studente del Liceo Galilei durante il pellegrinaggio ai campi di sterminio nazisti
In occasione della Giornata della Memoria proponiamo la pubblicazione del toccante diario scritto dallo studente del Liceo Galilei, Davide Moroni durante il pellegrinaggio ai campi di sterminio nazisti
L’occasione da cui questo diario ha preso vita è stata il Pellegrinaggio ai campi di sterminio nazisti per il 78° Anniversario della liberazione, un’esperienza che è stata offerta agli studenti delle scuole di Legnano da parte del Comune, in collaborazione con ANPI. Il pellegrinaggio è durato complessivamente 4 giorni, avendo come tappe i luoghi per i quali i nostri connazionali e concittadini sono transitati. Il diario, prendendo spunto dagli appunti di quei giorni, vuole restituire, senza alcuna pretesa, le sconvolgenti emozioni e sensazioni che delle visite di tale portata hanno suscitato su un ragazzo qualsiasi, il quale si è sempre approcciato a questo buio periodo della storia umana solo attraverso i manuali scolastici e gli insegnamenti dei propri genitori. Voglio ringraziare in anticipo di cuore per l’opportunità formativa e umana che mi è stata concessa, per l’accompagnamento, le preziose testimonianze e la crescita personale, tutti coloro che hanno reso possibile questo viaggio e si sono impegnati per gettare il seme della memoria nelle nuove generazioni.
DIARIO PELLEGRI NAGGIO A MAUTHAUSEN 2023
5 Maggio 2023
Caro diario,
mi trovo su un pullman in direzione Bolzano, è mattina inoltrata e non ho ancora ben metabolizzato il fatto di essere partito per un viaggio tanto importante: non so bene cosa aspettarmi. Prima della partenza non ho avuto grandi occasioni di riflettere su quello a cui sarei andato incontro, preso dal frenetico ritmo della vita di tutti i giorni. Forse è meglio così. Mi sono presentato infatti senza pregiudizi, senza aspettative, col cuore pronto a raccogliere ogni emozione che avrei provato.
La prima tappa del nostro pellegrinaggio è il campo di transizione di Gries (Bolzano). Si tratta di un piccolo campo di lavoro coatto, che ha “ospitato” principalmente prigionieri politici e oppositori del regime nazista. Il campo è stato incluso nostro itinerario poiché di lì è passato Carlo Venegoni, uno dei più conosciuti antifascisti e deportati legnanesi, nonché, insieme a suo fratello Mauro, simbolo della resistenza nella nostra cittadina e origine del partito partigiano di massa locale. Mentre mi viene raccontato quanto appena detto, rivedo, fuori dal finestrino, il panorama familiare della strada che spesso mi ha portato in vacanza sulle mie amate Dolomiti. Mai però, percorrendola prima d’ora, mi sono reso conto delle sofferenze e delle disumanità che questi luoghi meravigliosi hanno visto e vissuto. Il contrasto tra la maestosa natura locale e le dolorose vicende, che questa ha ospitato, è struggente e mi colpisce nel profondo, occupando per gran parte del percorso rimanente
il mio pensiero. Nel frattempo, siamo finalmente giunti alla nostra prima metà. Ci aggiorniamo non appena salirò di
nuovo sul pullman. La visita è terminata da circa un quarto d’ora, ma ancora nella mia mente regnano solamente
indignazione e rammarico. Devo riportare che del campo non rimane praticamente nulla, se non una parte della cinta muraria originaria, la quale, se osservata da un occhio distratto, non sembra ospitare le memorie dei nefasti eventi a cui ha assistito. Dove una volta sorgeva il complesso, oggi si ergono delle anonime palazzine: la storia è stata qui sotterrata sotto tonnellate di cemento e di mattoni. Per nostra fortuna le voci dei testimoni e dei membri dell’ANPI locale risuonavano ancora in questo luogo, donando alla memoria dei tanti giovani presenti le vicende lì avvenute. Proprio in quelle parole, in quelle storie di uomini e donne come noi, ho incontrato di nuovo il forte contrasto, e allo stesso tempo legame, che avevo intuito durante il viaggio, tra la vita e la morte. E’ infatti dal racconto della eroica e irriducibile resistenza delle persone rinchiuse nel campo, le quali sfidarono le armi e le torture, combattendo per il proprio diritto di essere umani, che ho sviluppato la convinzione per la quale è proprio nei luoghi dove il genere umano ha raggiunto il punto più basso della sua storia, dove l’attaccamento alle proprie e altrui vite si è innalzato e ha combattuto con la massima fierezza.
6 Maggio 2023
Buongiorno caro diario,
ci stiamo spostando alla seconda tappa del pellegrinaggio, la prima qui in Austria, ovvero Castello Harteim. Si tratta di un bellissimo edificio di stile rinascimentale, che però venne utilizzato come luogo di sterminio, lontano da qualsiasi idea di campo insegnata a scuola. Le persone infatti giungevano in questo luogo solo ed unicamente per venire annientate. Vennero uccise principalmente persone invalide e non adatte al lavoro, provenienti da campi di sterminio vicini, i quali superavano di gran lunga il numero di morti che potevano essere gestiti nelle proprie camere a gas e nei propri forni crematori, o comprese nell’Aktion T4, il programma di eutanasia nazista. Chiunque giungesse qui, con l’inganno di una visita medica, venne ucciso nella camera a gas, appositamente costruita, e successivamente cremato nel forno adiacente. Dei 30.000 essere umani giunti in questo castello, nessuno, e ribadisco nessuno, è mai tornato a casa. Questo processo frenetico ed infernale, in cui decine di donne e uomini in carne ed ossa entravano nel castello di fronte a indifferenti guardie, prima di uscirne come grigia cenere, aveva raggiunto un tale livello di disumanità da definire gli sventurati qui indirizzati come pezzi, non individui con vite e famiglie, non persone, non simili, ma pezzi, inanimati, da eliminare. Il mio cuore inizia a palpitare, l’ansia è molta e così anche il timore. Non ho mai visitato un luogo simile, dove tanti hanno ingiustamente perso la vita. Ho paura di quello che vedrò, di mettere i piedi dove loro li hanno messi per l’ultima volta, di vedere le stesse mura, di immaginarmi le loro grida e di respirare un poco della loro sofferenza. Mi farò coraggio, d’altronde sono qui per questo, per vedere, per provare, per arricchirmi di un fardello da condividere e raccontare una volta che sarò tornato a casa. E’ passato molto tempo dalla fine della visita. E’ stato complicato, a tratti sono stato tentato di fermarmi, distrarmi, far viaggiare altrove la mente, ma poi il rispetto per le persone passate di lì e il ricordo di quello che hanno affrontato hanno avuto la meglio. Ci sono stati diversi momenti di alta intensità emotiva e particolarmente toccanti. Il principale è stato sicuramente la visione di un cumulo di oggetti personali rinvenuto sottoterra. Questi sono stati analizzati, e in particolare nel materiale organico che li circondava è stata rinvenuta un’alta percentuale di ceneri, ceneri umane. Il cuore mi è balzato in gola. E’ stato in questo momento che ho realizzato che il terreno, su cui avevo poco prima posto i piedi, non era altro che la macabra miscela, contenente quanto rimaneva degli sventurati portati lì. Mi sono subito sentito in colpa di aver calpestato quell’erba, quel prato. Ad averlo saputo prima avrei calibrato quei passi con una maggiore leggerezza e un maggior rispetto. Non mi sono ancora ripreso del tutto, ma non ho altro tempo. Siamo in viaggio per la seconda tappa del giorno, Gusen, uno dei 49 sottocampi di Mauthausen. Ci hanno detto che non è rimasto nulla di questo, se non il forno crematorio. Sarà il primo che avrò occasione di vedere di persona nella mia vita, nel castello infatti rimaneva solo il canale della canna fumaria, il quale già di per sé trasmetteva un senso di inquietudine e riverenza. Sto provando uno scandalo profondo riguardo certe, a cui ho assistito. Da una parte vi è l’indignazione per quanto poco è sopravvissuto al tempo, per quanto è stato rubato alla memoria ed è stato cancellato con fretta dalla vista delle persone. Sono rimasto scioccato dal venire a conoscenza che il portone di ingresso del campo oggi è stato convertito in una casa privata. Non mi capacito di come si possa vivere spensierati su un lotto di terreno che ha visto e vissuto tante atrocità. Non biasimo la voglia di andare avanti e di voltare pagina, ma ritengo che tra queste e la mancanza di rispetto vi sia una linea sottile, che in questo caso è stata sacrilegamente oltrepassata. Dall’altra parte invece vi è l’indignazione che deriva dagli atteggiamenti notati durante la visita al forno crematorio sopravvissuto. Mi è parso che molti vi si avvicinassero solo per ottenere una irriverente “foto ricordo”, a volte azzardandosi addirittura a introdurre il telefono nell’apertura, giusto per poter dire di essere stati lì. Ritengo questi comportamenti assolutamente irrispettosi nei confronti di quello che è stato un terribile strumento di disumanizzazione. Questo è quanto mi è rimasto di più impresso della visita purtroppo. Spero di non assistere nuovamente a delle scene simili nella giornata di domani, visto che mi attende una visita ancora più impegnativa di quelle di oggi.
Ci sentiamo all’alba.
7 Maggio 2023
La visita del campo di Mauthausen è appena terminata. Oggi non sono riuscito a scrivere nulla prima della partenza. Durante la notte non ho dormito benissimo, sentivo in me che la giornata sarebbe stata importante, densa e significativa. Come sempre il panorama della campagna austriaca non ha deluso le aspettative, abbiamo infatti attraversato campi fioriti, immense distese di grano e verdeggianti colline. Proprio su una di queste però si stagliava il campo, come un’isola di malvagità immerso in una natura paradisiaca. Abituato agli ambienti ridotti dei giorni precedenti, questa volta la visione delle interminabili mura del campo, delle torri di sorveglianza, delle centinaia di metri di filo spinato e dell’imponenza del
portone mi hanno colpito profondamente. Mi sento obbligato a premettere che la visita del campo è stata resa unica e preziosa soprattutto dalla conoscenza e dal racconto dei signori di ANPI, i quali non si sono mai stancati di condividere con noi il loro sapere e di rispondere alle nostre curiosità, instaurando uno scambio tra generazioni che mai in altri contesti ho potuto sperimentare. La devozione al loro compito di divulgatori delle atrocità commesse in questi luoghi, riusciva a miscelarsi con un senso di umanità e di speranza nel futuro, che immediatamente ha suscitato in noi giovani un interesse, una simpatia e una vicinanza spontanei. Subito allora sovvengono alla mia mente, dai loro racconti, le immagini della grande aquila del Reich, una volta situata sopra l’ingresso del campo e oggi mancante, poiché trafugata durante l’abbandono del campo, e il rumore degli stivali delle SS sul ciottolato d’ingresso, il quale, la mattina, doveva far raddensare il sangue nelle vene dei deportati, ricordandogli dell’inferno nel quale si trovavano. L’immensa statua posizionata alla fine della gradinata, antecedente all’ingresso al campo, raffigurante la memoria di un ufficiale russo, sembra raccontare da sé la sua storia. Quella di un uomo che non si è arreso al suo destino, ma che ha trovato una morte atroce lottando fino all’ultimo
per la sua vita. Preso dopo aver organizzato un tentativo di fuga venne infatti legato al terreno e fatto morire di freddo nel rigido inverno austriaco, mentre bagnato con secchiate d’acqua, facendone macabro monito per chiunque tentasse di sottrarsi all’inferno del campo. Varcato il vero ingresso del campo non si può più tornare indietro. Le capanne risistemate a nuovo e il viale cementato non riescono a nascondere il ricordo di una Appellpatz fangosa, grigia, tenebrosa, dove venivano compiute efferatezze di ogni tipo. Proprio in questo spiazzo ci viene raccontato di come avvenissero disumani appelli e crudeli visite mediche, durante le quali gli individui troppo deboli venivano eliminati con una fredda siringa di benzina nel cuore. I comignoli uscenti dal terreno non lasciavano spazio all’immaginazione, la presenza di un seminterrato malefico, dove avveniva l’eliminazione fisica degli individui, è come uno scadente tentativo di nascondere un destino mai messo in dubbio. Le sale del museo sono toccanti, profonde. Per una porta ignifuga si passa dalle moderne sale museali a stanze scure, dove prevalgono il colore rosso dei mattoni del forno e il grigiume dei muri. L’aria inizia a farsi pesante, cupa. La sala successiva è completamente buia, i muri sono tappezzati dai nomi illuminati dei deportati che hanno qui perso la vita. Sono una moltitudine di luce in un buio indistinguibile, come stelle del cielo immerse nella notte profonda. Dopo essere risaliti brevemente in superficie ci rigettiamo di nuovo nel seminterrato, attraversando un’altra stanza dei forni, con l’annessa stanza degli operatori del forno. Subito dopo si affronta una zona ancora più dolorosa, quella della sala anatomica, delle
camere a gas e della zona delle. Eppure non abbiamo ancora visitato il punto in cui la disumanità del regime nazista ha raggiunto il suo culmine. Scendendo dalla collina infatti, tra le fronde degli alberi, è individuabile la tristemente
celebre scala della morte, dove l’essere umano si è trasformato in bestia cercando di strappare ai propri simili anche la dignità di essere persone. Su questi 186 gradini, appositamente sfalsati e diversi tra loro, in qualsiasi clima, dall’alba fino a sera inoltrata, uomini denutriti e indeboliti dalle pessime condizioni di vita, erano obbligati a trasportare massi di marmo. Qui crollavano sfiniti dalla fatica, tremanti, annichiliti. Qui le guardie si divertivano a far sparare ai deportati, causando
immensi effetti domino, che uccidevano gli uomini sotto il peso dei massi e l’acume dei gradini. Dal margine alto della cava gli uomini venivano obbligati a gettare i loro compagni, oppure a ricevere un colpo di pistola, causando immensi voli nel vuoto e dando alla parete verticale il nome di “muro dei paracadutisti”. Ripercorrere quei gradini è doloroso, demolisce ogni convinzione e sicurezza, spezza le gambe, il cuore, l’anima. La natura prova a riprendersi questo luogo con le sue fronde e le sue piante, tentando di nascondere l’opera vergognosa della sua prole perversa. Risalire sul pullman è un respiro di sollievo, ma al contempo una condanna: obbliga chiunque abbia visto e sentito quello che è qui avvenuto, a tornare alla propria casa, alla propria scuola, al proprio lavoro e raccontare di quando l’essere umano si è perso nel buio della malvagità, ferendo il suo simile, annichilendolo. E’ un compito di cui tutti noi ragazzi che abbiamo visto e sentito dobbiamo farci carico, orgogliosi di essere depositari di una memoria e di una conoscenza che oggi si tende fin
troppo a trascurare e dimenticare.
Davide Moroni
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