La parità di genere è anche un affare
Le riflessioni di Giuseppe Geneletti sul tema: "La letteratura recente sottolinea che le aziende più inclusive sono in grado di creare un valore più elevato"
Figlio di una donna che ha sempre lavorato, lei stessa figlia di una donna che ha sempre lavorato, con due figlie che lavorano, sposato a una donna che lavora, con una sorella, una suocera che hanno sempre lavorato, so bene che la parità di genere nel lavoro è la cosa giusta cui mirare. Ovviamente non mi riferisco solo ai lavori retribuiti e considerati tali. A ben voler vedere, tutte le donne lavorano da sempre, per il solo fatto di essere persone che si occupano della casa, della famiglia, degli anziani, dei vicini, del sociale etc. anche se sono “ripagate” solo, non sempre, dal riconoscimento e dall’affetto di coloro che ne beneficiano. Finora, il divario di genere sul fronte economico, seppur ridotto, rimane il tallone d’Achille italiano. Ora, le regole del gioco stanno per cambiare: se, come impresa, ti impegni e dimostri di investire in questa direzione, sono arrivate norme, leggi e programmi di incentivi che danno vantaggi economici diretti.
La parità di genere si misura con quattro dimensioni. Il World Economic Forum stima che nel mondo si è chiuso il 96% del divario in salute, il 95% del divario in istruzione, il 58% del divario in opportunità e partecipazione economica e solo il 22% del divario in politica e rappresentanza. L’Italia si posiziona al 63esimo posto complessivo dei 156 Paesi monitorati. La partecipazione economica emerge come la dimensione più critica per il nostro Paese (114esimo posto) per il basso tasso di occupazione femminile, che rimane inchiodato da dieci anni al 49% (rispetto al 68% per i maschi). Siamo fanalino di coda in Europa, seguiti solo da Grecia e Malta, con un divario estremamente ulteriore al Sud (solo 34%).
Sul fronte dell’istruzione, le donne italiane, secondo il Censis, sono pari al 56% del totale (2019).
Nonostante i progressi evidenti in corso, sono ancora in minoranza (41%) nei percorsi di laurea STEM (scienza, tecnologia, ingegneria, matematica), con proporzioni particolarmente basse nei gruppi ingegneria (26%) e scientifico (32%), aree in cui tendono a concentrarsi le maggiori opportunità di lavoro ben retribuito, anche in futuro. Entrare nel mondo del lavoro è solo il primo ostacolo da superare. Dopo iniziano tutti gli altri: divario retributivo, riduzione delle opportunità di carriera, con conseguente minore partecipazione ai vertici aziendali e, infine, l’effetto maternità. La presenza delle donne è maggiore in settori a inferiore valore aggiunto. Ad esempio, nelle attività scientifiche e tecniche, si concentra nei servizi forniti agli studi professionali, mentre in ambito sanitario, le donne sono prevalentemente presenti in settori quali i servizi di assistenza sociale residenziale e non. Aumenta il divario anche il fatto che le donne in posizioni manageriali in Italia sono solo il 27% del totale (Istat). La maternità rimane un ostacolo nel percorso di raggiungimento della parità di genere nel mercato del lavoro. A quindici anni dalla maternità, i salari lordi annuali delle madri sono di 5.700 euro inferiori a quelli delle donne senza figli rispetto al periodo antecedente la nascita (INPS). In questo quadro non esaltante, è arrivata la crisi pandemica che ha comportato impatti negativi in settori lavorativi come la sanità e l’istruzione, che espongono a elevati rischi di contagio, dove le donne sono più presenti, e ha aumentato il lavoro domestico e di cura, tipicamente ancora sbilanciato verso le donne.
La parità di genere è motore di crescita economica e di sviluppo. Poiché la distribuzione dei talenti e delle capacità tra uomini e donne è la stessa e le donne in media detengono un capitale umano e una produttività non inferiore a quella degli uomini, una piena valorizzazione del talento femminile diventa elemento fondamentale nella creazione della crescita economica. Inoltre, il lavoro femminile rappresenta un contributo diretto alla formazione di PIL e alla creazione di crescita economica. Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale se le lavoratrici fossero numericamente pari ai lavoratori, in Italia il PIL aumenterebbe dell’11%. Infine, la partecipazione delle donne alla vita economica e alle decisioni economiche e politiche comporta un allargamento di prospettive che è essenziale per spingere l’innovazione e la performance.
La letteratura recente sottolinea che le aziende più inclusive sono in grado di creare un valore più elevato. Per l’Italia, sono significativi gli studi condotti con riferimento all’introduzione di quote di genere, un fattore esogeno che aumenta il numero di donne in posizioni decisionali indipendentemente da altri fattori e che quindi permette di identificare in modo rigoroso il rapporto di causa-effetto. Le ricercatrici Valerio Ferrari, Paola Profeta e Chiara Ponzato hanno dimostrato che la quota di direttori donna nei board è associata con una minore variabilità delle quotazioni del mercato azionario. Come si spiega?
In parte la relazione positiva dipende dalle caratteristiche individuali specifiche delle donne (avversione al rischio, capacità di negoziare, visione di lungo periodo, sensibilità ai temi di sostenibilità), dalle modalità di relazionarsi, dalla capacità di interagire in gruppi, e in generale da quello che viene definito lo stile di leadership femminile, più inclusivo e orientato all’innovazione di quello maschile. In parte, la platea dei candidati si allarga e il livello di qualità migliora. Infine, gli studi esistenti mostrano che la presenza di donne in posizioni decisionali si accompagna alla definizione di una nuova agenda, dove temi come l’inclusione, la sostenibilità, il work-life balance diventano prioritari. Si tratta di temi con un forte impatto propulsivo sulla produttività e sul valore del business, a conferma che la parità di genere può innescare circoli virtuosi che portano benefici per l’azienda, per la società e per l’economia.
Il mondo della politica si sta muovendo per accelerare la trasformazione con la Strategia Nazionale sulla Parità di Genere 2021-2025, dalla cui attuazione è nata la legge 5 novembre 2021 n. 162 sulla parità salariale e la certificazione di parità di genere.
UNI, l’ente nazionale italiano di unificazione, nei mesi scorsi ha condotto il tavolo di definizione delle procedure di misurazione, monitoraggio e certificazione, che sono basate su 6 aree tematiche e 33 indicatori operativi con relativi pesi:
- Cultura e strategia (15%);
- Governance (15%);
- Processi HR (10%);
- Opportunità di crescita ed inclusione delle donne in azienda (20%);
- Equità remunerativa per genere (20%);
- Tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro (20%).
Le imprese virtuose che raggiungono un punteggio minimo del 60% hanno accesso alla certificazione (da confermare ogni due anni), un passaggio che apre la porta a sgravi contributivi e premialità nella valutazione dei bandi pubblici all’interno del PNRR e non solo.
Sistema di gestione per la parità di genere. La valutazione per la certificazione è un processo rigoroso. La Prassi di Riferimento 125 di UNI stabilisce che “Le organizzazioni che adottano una politica di parità di genere, devono definire un piano di azione per la sua attuazione, impostando un modello gestionale che garantisca nel tempo il mantenimento dei requisiti definiti ed attuati, misurando gli stati di avanzamento dei risultati attraverso la predisposizione di specifici KPI, con i quali mantengono e verificano le azioni pianificate. La politica di parità di genere aziendale, deve essere: a) definita dall’Alta Direzione, in coordinamento con il comitato guida; b) comunicata e diffusa all’interno dell’organizzazione ed alle proprie parti interessate; c) oggetto di formazione e sensibilizzazione al management aziendale, d) revisionata o confermata periodicamente in fase di revisione sulla base degli accadimenti, dei cambiamenti e dei risultati dei monitoraggi e delle verifiche; e) coordinata da una figura responsabile, designata dal management e in possesso di competenze organizzative e di genere. La politica di parità deve essere resa disponibile sul sito dell’organizzazione”.
Alberto Monteverdi, responsabile delle relazioni pubbliche di UNI ha sottolineato: “Per la prima volta gli enti accreditati a conferire la certificazione devono aver loro stessi applicato alla propria organizzazione il sistema di gestione della parità di genere. Un elemento di garanzia ulteriore della qualità e dell’integrità del processo di valutazione”.
Dato che la formazione è importantissima, soprattutto per la popolazione manageriale, anche gli enti territoriali si stanno orientando a sostenere questo cambiamento. Ad esempio, Regione Lombardia ha previsto l’erogazione di un contributo sotto forma di voucher per servizi di consulenza e il rimborso dei costi di certificazione con un budget iniziale di 10 milioni di euro.
Come per lo smart working e la sostenibilità ambientale, quando le imprese e il sistema economico-politico-sociale, passa dalla fase delle ideologie a quella della integrazione concreta nelle dinamiche dei processi decisionali con vantaggi economici qualitativi e quantitativi dimostrati, allora il processo di cambiamento acquisisce una spinta trasformativa che fa mettere a terra azioni reali e sostenibili a lungo termine.
“Se qualcuno pensa di essere limitato a causa del suo genere, della sua razza o della sua origine, diventerà ancora più limitato”, Carly Fiorina.
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